Stampa

Mancanza di lavoro

Scritto da Webmaster.

Mancanza di lavoroDurante la recente visita pastorale a Cagliari, Papa Francesco ha incontrato la sofferenza dei tanti giovani disoccupati, delle persone in cassa-integrazione o precarie, degli imprenditori e commercianti che fanno una grande fatica ad andare avanti, tutte situazioni caratterizzate da scarsità di mezzi economici ma anche da intensa sofferenza e vulnerabilità sociale. Un fattore molto importante per l’espressione della persona è proprio il lavoro: il lavoro, che è sorgente di dignità. Ciò non vuol dire automaticamente che chi non ha un lavoro, né un lavoro dignitoso, sicuro e stabile, sia privo di dignità, ma che la lotta disperata per la sopravvivenza, lo scivolare verso la povertà può indurre un crollo dell’autostima.

Papa FrancescoNel suo appassionato discorso a braccio pronunciato il 22 settembre a Cagliari davanti al mondo del lavoro, Papa Francesco ha sottolineato: «Una sofferenza - la mancanza di lavoro - che ti porta, scusate se sono un po’ forte ma dico la verità, che ti porta a sentirti senza dignità». 

Come già Hegel aveva ipotizzato, la povertà è una forma di riconoscimento inadeguato: la mancanza di beni in una società basata sulla proprietà fa sì che il povero possa sentirsi escluso ed evitato, finanche disprezzato. «La povertà conduce alla mancanza di riconoscimento da parte degli altri e priva chi è povero del rispetto - scrive Costas Douzinas, Direttore del Birkbeck Institute for the Humanities a Birkbeck (Università di Londra) in Lotte, riconoscimento, diritti (a cura di Antonio Carnevale e Irene Strazzeri, Morlacchi Editore) -. Ma il danno inflittogli è anche peggiore: chi è povero riconosce se stesso come essere libero, ma la sua esistenza materiale gli nega in maniera assoluta una qualsiasi forma di rispetto di se stesso. Il risultato è che quest’individuo si sente scisso tra l’universalità del suo stato di persona libera e la contingenza della sua esperienza fatta di esclusione». 

«Il quotidiano sopravvivere diventa la questione all’ordine del giorno, mentre svaniscono tutte le altre aspirazioni di miglioramento sociale e di espressione culturale - sottolinea Douzinas -. Chi è oppresso non riesce a godere di (e neanche quindi ad aspirare a) ciò che Aristotele definiva eu zein, il bene e la vita compiuta che permettono alle persone di far prosperare i lati della propria personalità e di essere riconosciute nella propria complessa interezza».  

Il «senso di appartenenza» consente di condividere le difficoltà con altri, di riconoscersi tra pari e di lottare insieme per negoziare condizioni di vita (o di lavoro) migliori. Tale concetto diviene il punto di partenza della ricerca del filosofo tedesco Axel Honneth, erede della Scuola di Francoforte, che approderà alla formulazione della teoria sociale del riconoscimento. Già nello scritto Coscienza morale e dominio di classe Honneth mette in evidenza come le classi lavoratrici sviluppino un proprio positivo senso di appartenenza, un condiviso orizzonte di valori e di stili di espressione, di comportamento e di gestione dei problemi morali. Honneth assegna il ruolo di forza motrice dell’evoluzione sociale alle aspettative di riconoscimento che gruppi e individui avanzano in relazione al vedersi garantite, nella società, le condizioni del proprio «rispetto di sé», non solo riguardo ai beni materiali, ma come opportunità di istruzione, di dignità sociale, di lavoro che possa essere di supporto all’identità, in ultima analisi, nel veder riconosciuto il proprio contributo alla conservazione e alla riproduzione della società.  

«Bisogna lottare contro la povertà, che è soprattutto assenza di speranza e di stima da parte di altri con cui possono essere condivisi valori proiettati al futuro. Tu quando hai perso la speranza? E quando hai ripreso a sperare? Rispondiamo a queste domande e riappare la stima. La marginalità è non avere nessuno che ci stima. E non stimarsi, ossia non avere la stima di sé», sostiene il pedagogista Andrea Canevaro (dall’articolo Stima che non fa male, di Andrea Canevaro, pubblicato su Unimarg.it, il 20/09/2011).  

Incontrare la sofferenza delle persone, sempre più disperate e isolate, significa dunque restituire la speranza e l’appartenenza. È proprio quello che ha esortato a fare Papa Francesco, con il suo discorso a braccio, a Cagliari, davanti alla folla commossa: «È facile dire non perdere la speranza, ma a tutti voi, quelli che avete lavoro e quelli che non avete lavoro, vi dico “non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciatevi rubare la speranza!”. Forse la speranza è come la brace sotto le ceneri: aiutiamoci con la solidarietà soffiando sulle ceneri, perché il fuoco venga ravvivato. Ma la speranza ci porta avanti. Quello non è ottimismo, è un’altra cosa. Ma la speranza - ha detto - non è di uno: la speranza la facciamo tutti! La speranza dobbiamo sostenerla tutti, tutti voi e tutti noi che siamo lontani. La speranza è una cosa vostra e nostra. È cosa di tutti! Per questo vi dico: non lasciatevi rubare la speranza…».